“Ha diritto a morte dignitosa”. Cassazione apre a scarcerazione di Totò “la Belva”.

La Corte di Cassazione ha aperto oggi alla possibilità di un differimento della pena o della concessione degli arresti domiciliari per il super boss, in relazione alle sue condizioni di salute.
Con una sentenza depositata oggi, la Suprema corte ha accolto il ricorso presentato dai difensori del boss, annullando con rinvio la decisione del Tribunale di sorveglianza di Bologna, che aveva rigettato la richiesta. La Cassazione ritiene che si debba “affermare l’esistenza del diritto a morire dignitosamente” che “deve essere assicurato al detenuto”.
Il Tribunale di Sorveglianza aveva escluso l’ipotesi del differimento della pena “non emergendo dalle relazioni sanitarie acquisite che le pur gravi condizioni di salute del detenuto fossero tali da rendere inefficace qualunque tipo di cure e dandosi, anzi, atto nelle stesse di numerosi e articolati trattamenti terapeutici praticati al detenuto” insieme a “un attento e continuo monitoraggio” che aveva portato anche ad alcuni ricoveri in ospedale. Dunque per i giudici bolognesi le patologie di Totò Riina potevano essere trattate anche in carcere.
A questo si univa una valutazione relativa al “bilanciamento ” della situazione di salute del detenuto con “le esigenze di sicurezza e incolumità pubblica”, dato il suo “altissimo tasso di pericolosità” e il suo ruolo di “vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ancora pienamente operante e rispetto alla quale non aveva mai manifestato volontà di dissociazione”.
La Cassazione ha ritenuto questa motivazione “illogica e contraddittoria”. La valutazione dell'”assenza di incompatibilità tra l’infermità fisica e la detenzione in carcere” appare “parziale e inadeguata”. Infatti “affinché la pena non si risolva in un a trattamento inumano e degradante”, si legge nella sentenza, “lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare, non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo di vita per la persona ma piuttosto avere riguardo a ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”.
Ma chi è e quale è stato il ruolo di Riina all’interno di Cosa nostra?
Nato a Corleone nel 1930, Salvatore Totò  Riina  la Belva, Totò u curtu, il capo dei capi. Sono tanti i soprannomi con i quali è stato ribattezzato negli anni, tra i boss mafiosi più feroci e spietati, assieme a Matteo Messina Denaro, ancora oggi latitante. E’ il maggior rappresentante dei ‘falchi’ di Cosa nostra. E’ lui il regista delle stragi dell’estate del 1992 a Palermo dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte. La sua strategia “libanese” si contrapponeva a quella portata avanti da Bernardo Provenzano, che ha traghettato Cosa nostra nel nuovo millennio facendola “inabissare”. E’ ritenuto mandante di tutti gli omicidi eccellenti eseguiti dai sicari della mafia.
Totò u curtu, come venne ribattezzato per via della sua statura, inizia l’ascesa in Cosa nostra nei primi anni Settanta, consolidando il suo potere negli anni Ottanta quando la mafia corleonese sfida le storiche famiglie palermitane da boss del calibro di Stefano Bontade e Totuccio Inserillo. Sin da giovane, Riina lega il suo nome a quello del mafioso Luciano Liggio, con il quale intraprende il furto di covoni di grano e bestiame e lo affila nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo.
A 19 anni Riina viene condannato a 12 anni, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo, Domenico Di Matteo, pena scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, venendo però scarcerato nel 1956. Insieme con Liggio e alla sua banda, Riina comincia a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato. Nel 1958 Liggio elimina il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme con la sua banda di cui faceva parte anche Riina, scatena un conflitto contro gli ex-uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.
arrestoRiina viene però arrestato nel dicembre del 1963 a Torre di Gaffe: ha con sé una carta d’identità rubata e una pistola non dichiarata. Tenta di scappare ma venne braccato e catturato dalle forze dell’ordine. Dopo aver scontato alcuni anni di prigione all’Ucciardone viene assolto per insufficienza di prove e dopo l’assoluzione, si trasferisce con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari. Il Tribunale di Palermo emette un’ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Riina torna da solo a Corleone, dove viene arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato; scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, non raggiunge mai il soggiorno obbligato, dando inizio alla sua latitanza.
Nel 1969 Riina è tra gli esecutori della “strage di Viale Lazio”, che doveva punire il boss Michele Cavataio. E’ il periodo in cui ‘u curtu sostituisce spesso Liggio nel “triumvirato” provvisorio di cui fa parte con i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Nel 1971 Riina è l’esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipa ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: Giovanni Porcorosso, figlio dell’industriale Giacomo, e anche il figlio del costruttore Francesco Vassallo mentre nel 1972 Riina stesso ordina il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vengono implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò.
A quel tempo il principale referente politico di Riina è il democristiano Vito Ciancimino, suo compaesano diventato sindaco di Palermo. Durante la latitanza Riina si sposa con Ninetta Bagarella. Un matrimonio celebrato negli anni Settanta da un prete in odor di mafia: don Agostino Coppola. Ha quattro figli due dei quali, Giovanni e Giuseppe. Gli anni ’80 sono segnati da quella che viene definita “la seconda guerra di mafia”: nella provincia di Palermo i boss dello schieramento che faceva capo a Riina uccidono oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti mentre molti altri rimangono vittime della cosiddetta “lupara bianca”. Il massacro continua fino al 1982, quando si insediò una nuova “Commissione”, composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso boss. Tra gli omicidi attribuiti a Riina ci sono quello del segretario provinciale della Dc, Michele Reina, del fratello dell’attuale presidente della Repubblica, Piersanti Mattarella e del deputato del Pci Pio La Torre.
Il 30 gennaio 1992 la Cassazione conferma gli ergastoli del Maxiprocesso sancendo l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta. Alcuni pentiti raccontano di rapporti tra Riina e alcuni rappresentati della politica, tra cui il democristiano Salvo Lima. Un pentito parla anche di un incontro con Andreotti, testimonianza ritenuta inattendibile nella sentenza del processo contro l’ex presidente del consiglio. Anche l’esistenza della trattativa tra stato e Cosa nostra sarà successivamente smentita, nonostante il processo sia ancora in corso.
Le deposizioni dei collaboratori di giustizia scatenano la ritorsione di Cosa nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizza i capofamiglia a eliminare i familiari dei pentiti “sino al 20esimo grado di parentela”, compresi i bambini e le donne. Riina si scaglia anche contro lo Stato, dalle bombe di Roma e Firenze, alle stragi di Capaci e via d’Amelio in cui moriranno Falcone e Borsellino.
U curtu, che in un libro-inchiesta sul 41 bis di Sergio D’Elia e Maurizio Turco si è definito ‘un detenuto modello, viene arrestato il 15 gennaio del 1993 dopo circa 23 anni di latitanza da una speciale squadra di carabinieri guidati dal capitano ultimoUltimo. Viene arrestato in viale Regione Siciliana, nei pressi della rotonda di viale Lazio, alle 8,27 di mattina. Lo stesso giorno dell’arresto a Palermo si insedia il procuratore capo Giancarlo Caselli. Dopo la cattura viene sottoposto al carcere duro, previsto per chi commette reati di mafia, il 41-bis, prima nel supercarcere dell’Asinara e poi in quello milanese di Opera.
bindi“Dopo terribili stragi e tanto sangue, il più feroce capo di Cosa Nostra è stato assicurato alla giustizia e condannato all’ergastolo, anche se vecchio e malato, la risposta dello Stato non può essere la sospensione della pena” . “Leggeremo con attenzione le motivazioni della Cassazione. Ma Totò Riina è detenuto nel carcere di Parma dove vengono assicurate cure mediche in un centro clinico di eccellenza. E’ giusto assicurare la dignità della morte anche ai criminali, anche a Riina che non ha mai dimostrato pietà per le vittime innocenti. Ma per farlo non è necessario trasferirlo altrove, men che meno agli arresti domiciliari, dove andrebbero comunque assicurate eccezionali misure di sicurezza e scongiurato il rischio di trasformare la casa di Riina in un in un santuario di mafia.  Così Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia.
dalla chiesaQuesta è la dichiarazione rilasciata da Rita dalla Chiesa al Tg4 dopo la notizia che la Cassazione ha aperto al differimento della pena per Totò Riina perché gravemente malato : “Penso che mio padre una morte dignitosa non l’ha avuta, l’hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli. Quindi di dignitoso, purtroppo, nella morte di mio padre non c’è stato niente”.
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